Una goccia pura in un oceano di rumore. Forse niente meglio di questa celebre metafora, usata da Bono degli U2 come epitaffio e divenuta ormai celebre, descrive pienamente quello che è stato Jeff Buckley. Un artista che ha attraversato il rock degli anni 90 come la più fulgida delle comete: una sola, accecante fiammata, per poi sparire improvvisamente, lasciando dietro di sé una scia ancor oggi luminosa. Era il 29 maggio del 1997 quando, poco più che trentenne, il figlio di Tim Buckley si immerse nelle acque di un affluente del Mississippi per non uscirne più. Da allora, il culto di cui già godeva in vita è diventato leggenda, continuando a crescere e, in diversi modi, a lasciare il segno. Un fatto non usuale, considerando che il cantautore e chitarrista californiano aveva all’attivo soltanto un album, quel Grace che nel 1994, sul tramontare dell’era grunge, rimise un po’ di cose in discussione. Eppure, a dieci anni da quella tragica scomparsa, la memoria di Jeff resta prepotentemente vivida, impressa nelle menti e negli animi sia di migliaia di vecchi e nuovi fan, sia di decine di artisti che lo citano come influenza primaria (tacendo di tutti coloro che, probabilmente, non avrebbero neanche intrapreso una carriera se non l’avessero mai sentito). Come per molte illustri personalità – e vittime – del rock prima di lui, che tanto nella vita quanto nella morte hanno lasciato impronte indelebili del loro passaggio, giunge ancora una volta il momento di tirare le somme, specialmente adesso che, in qualche modo, lo shock della scomparsa è stato metabolizzato. Non che nel frattempo Buckley sia stato estraneo alle cronache, anzi: sono stati scritti libri, saggi, innumerevoli articoli; sono uscite raccolte postume, dischi dal vivo e dvd (per le ultime uscite vedi il box a pagina 42); sono state realizzate canzoni, concerti e album tributo; sono stati girati documentari, e – a quanto pare – sono ufficialmente partiti i lavori persino per l’inevitabile biopic. Di Jeff si parla e si continua a parlare, insomma, e non solo relativamente alla sua perdita e alla sua musica. Per questo, al di là delle dovute commemorazioni, mai come oggi è interessante cercare di capire quale sia stato effettivamente il suo lascito. Capire perché, come artista, merita di essere contato tra i grandi, della sua generazione e non solo. Qual è stata la sua importanza a lungo termine, nella storia del rock? In che modo ha caratterizzato il decennio di cui è stato protagonista? In cosa consisteva il suo mito? Qual è la sua eredità, e chi sono oggi i suoi eredi? Come è sopravvissuta la sua musica? Come deve essere ricordato, oggi? E soprattutto, chi era veramente Jeff Buckley?
Ci ha aiutato a ricostruire questo percorso una testimone d’eccezione: sua madre, Mary Guibert, alla quale – com’è noto – è affidata la gestione del suo patrimonio artistico. Figura controversa, personaggio amato e odiato come spesso avviene in questi casi, è solo e soltanto a lei che bisogna fare riferimento per ogni cosa che riguarda il figlio, dall’uso del nome e delle canzoni alle discusse pubblicazioni postume, fino a tutti i progetti in qualche modo a lui collegati. Da dieci anni a questa parte, Mary ricopre questo ruolo in modo sicuro (per certi versi diremmo spregiudicato), mantenendo saldamente il controllo in circostanze spesso delicate, unendo con estrema accortezza – e altrettanta naturalezza – lo spirito materno con quello imprenditoriale. “Come madre e come donna d’affari, mi preoccupo di quello che la gente dice di mio figlio, e di come ciò che faccio nel suo nome – o meglio, ciò che permetto venga fatto – viene accolto dagli altri. Per questo leggo tutte le recensioni e gli articoli, mi tengo costantemente aggiornata. È la mia prima preoccupazione. Per il resto, non c’è niente nel mio lavoro che prevede che io dica agli altri cosa devono fare; devo solo essere onesta, sincera e diplomatica”.
Per avere un’idea dell’impatto che Jeff Buckley ebbe sul mondo (rock e non solo), bisogna fare un balzo indietro di una quindicina d’anni. Facile immaginare come, all’inizio dei 90, la sua comparsa sulle scene fu una sorta di rivelazione. La rivoluzione grunge era in piena esplosione, uno scossone tremendo e rumoroso che stava cambiando inesorabilmente la faccia del rock e della musica popolare in generale, segnando le sorti della decade in corso. In un’era in cui la figura del cantautore sembrava destinata ad estinguersi, in cui il canto era concepibile soltanto come urlo di rabbia o lamento di insoddisfazione, in cui – complice anche la morte di Kurt Cobain – gli eroi sembravano del tutto scomparsi e imperava nient’altro che la disillusione, ecco arrivare questo ragazzo dalla voce d’angelo, capace non solo di colmare quei vuoti, ma di diventare uno degli artisti più amati e venerati del decennio intero. La scomparsa prematura, poi, non ha fatto altro che sigillarne il mito, ad uso e consumo degli adoratori della grande Chiesa del rock. Ché del mito, la sua storia ha tutti i requisiti: un artista bello, bravo (straordinariamente bravo), morto giovane, tragicamente. Ma al contempo, quello di Buckley non è il solito mito rock, legato a fattori come fama ed eccessi. Più che della classica rockstar maledetta, annientata da una vita condotta al massimo (Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, lo stesso padre), o sconfitta da ciò che il successo gli aveva portato e dai propri demoni interiori (Cobain), la sua figura aveva i tratti dell’eroe romantico, strappato alla vita da un destino ineluttabile (facile individuare nelle sue liriche diversi presagi). Apparentemente, Jeff fece di tutto per tramandare ai posteri questa immagine di sé. Basterebbe solo Grace, sin dalla copertina, così stridente con i tempi allora correnti: in mezzo all’immondizia – in senso estetico, s’intende – del grunge e la sciattezza del lo-fi, allora imperanti, ecco questa sorta di James Dean del rock, che intona con voce limpida canzoni di amore e perdita, di sofferenza e di riscatto, di romanticismo e di bellezza, di redenzione e di morte. Nell’immaginario collettivo, Buckley si è così trovato ad incarnare una figura quasi angelica, profondamente legata ai concetti di purezza (vedi la frase di Bono in apertura), di bellezza (al punto che, prima di debuttare su disco, gli era stata proposta una campagna come modello per una catena d’abbigliamento), di spiritualità (in senso lato, ma anche letterale: fu tra i pochi occidentali a cimentarsi con il canto religioso pakistano, il qawwali) e, appunto, di grazia. È probabilmente l’avere portato questi concetti all’interno del rock – insieme al talento che mostrava nel fare arte, ovviamente – una delle maggiori cause del successo e dell’amore che da subito lo ha legato al suo pubblico. Dietro questa facciata romantica però, c’era senza dubbio una personalità complessa, enigmatica, ricca di sfaccettature inaspettate. A seconda delle testimonianze, Jeff poteva essere tanto introverso e cupo quanto espansivo, clownesco, imprevedibile; passava con disinvoltura dal sarcasmo feroce all’ironia acuta, dalla dolcezza estrema alla rabbia incontenibile, tanto nelle canzoni quanto nella vita di ogni giorno (basta sentirlo parlare nelle registrazioni dei concerti per averne prova). Jeff aveva un lato luminoso, ma anche un lato oscuro, legato nel profondo al trauma dell’abbandono da parte del padre e dell’essere confrontato costantemente con la sua leggenda, uno degli argomenti che più lo turbavano e al contempo lo ossessionavano (vedi box a pagina 45); nonostante ciò, al centro della sua vita c’è stata sempre e soltanto la musica: nessuno scandalo, nessuna storia perversa, soltanto una grande passione e amore sconfinato per la propria Musa. A questo proposito, Mary Guibert chiarisce e approfondisce ulteriormente: “Non si dice mai abbastanza quanto Jeff fosse divertente, che comico straordinario era. Viene sempre descritto come una persona cupa e triste; ma è solo l’aspetto che i giornalisti hanno voluto enfatizzare – non li biasimo, dopotutto anche loro sono persone creative. In realtà, se Jeff risultava sfuggente ed enigmatico è semplicemente perché non aveva creato un personaggio per sé. Tipi come George Clooney o Brad Pitt possono essere descritti in poche parole perché sono celebrità che impersonano la maschera su cui hanno lavorato diligentemente. Ma quando una persona è reale, non può essere descritta in poche parole. Piuttosto, Jeff era complesso, non cupo o enigmatico. Le persone vere e autentiche presentano sempre aspetti molteplici, delle sfumature spesso difficili da cogliere. Per esempio, un’altra cosa che andrebbe ricordata di lui è la grande abilità che aveva nell’imparare, e la dedizione che metteva in tutto ciò che faceva. Per tutta la sua vita l’ho visto studiare e lavorare diligentemente su ogni cosa in cui si cimentava, dalla musica alla letteratura, dalla poesia alla filosofia. Ha sudato moltissimo per assorbire gli stili dei suoi grandi maestri e per crearne uno tutto suo, dal punto di vista vocale e strumentale. Pur non avendo studiato al college (si diplomò come chitarrista al Musician Institute di Hollywood, nda), aveva un’incredibile collezione di libri per essere un autodidatta, da Sartre a Goethe – in tedesco! – fino ai poeti francesi. Jeff era come una spugna, e grazie a questa sua dote si è perfino trovato accanto ad alcune delle persone più importanti del nostro tempo. Ai tempi del progetto su Edgar Allan Poe (l’album di reading Closed On Account Of Rabies: Poems & Tales by Edgar Allan Poe, pubblicato dalla Mercury nel 1997, nda), Allen Ginsberg gli ha insegnato a leggere in pentametri giambici. Amava talmente la musica di Nusrat Fateh Ali Khan (il cantante sufi da sempre idolo dichiarato di Jeff, nda) da studiare la lingua in cui cantava, l’Urd”.
Tutte qualità che si riversarono nella musica e nella carriera di Jeff, consentendogli di sviluppare una passione e una versatilità fuori dal comune. La sua curiosità insaziabile, senz’altro ereditata dal padre, lo portò a cibarsi di qualsiasi tipo di influenza e genere musicale, si trattasse di rock, jazz, prog, blues, folk, new wave, punk, classica, soul, indie, hardcore, world music. Buckley era capace di mettere insieme Nina Simone e MC5, Edith Piaf e Led Zeppelin, Van Morrison e Bad Brains, Robert Johnson e Doors, Bob Dylan e Smiths; innumerevoli ingredienti che andarono a riversarsi nel suo songwriting e nel suo stile, immortalati per sempre in Grace. Un album di pop-rock dalle trame profonde e dalle innumerevoli sfumature, di brani dalla struttura complessa ma dall’appeal altrettanto immediato; qualcosa di familiare, ma allo stesso tempo diverso da ogni cosa che si sentiva allora, nel 1994. Riascoltando oggi quella musica ora potente ed epica, ora delicata e intimista, ora eterea e mistica, ora terrena e passionale, è sempre percepibile quella pulsione vitale, quel fascino melodrammatico, quella bellezza che, senza mezze misure, lasciava a bocca aperta e stregava chiunque vi venisse a contatto. Non deve quindi stupire se, nelle previsioni tanto degli appassionati quanto dei discografici che avevano scommesso su di lui ogni dollaro possibile (tra l’altro, sulla sola base dei set di cover eseguiti al Sin-é, caffè dell’East Village divenuto poi celebre), Buckley avrebbe potuto essere il nuovo Dylan, il nuovo Springsteen. Lui però preferiva muoversi cauto, in una sorta di incertezza che, unitamente al tragico destino che lo attendeva, lo portò a realizzare in vita molto meno di quanto avrebbe realmente potuto. “Jeff non ha mai avuto dubbi sul suo talento e le sue potenzialità”, commenta Mrs. Guibert. “Sin da quando cominciò ad esibirsi nei caffè a New York, sapeva perfettamente che avrebbe potuto vivere di musica. Le sue incertezze piuttosto riguardavano il music business. Quando firmò per la Columbia Sony, sapeva che puntavano a farlo diventare il numero uno, ma la sua più grande paura era di essere trattato come una one hit wonder. Le case discografiche possono orientare il mercato, ma se il pubblico non segue le tendenze, le prime vittime del meccanismo sono gli artisti. Jeff voleva assolutamente evitare questo. Quando uscì Grace, lo caricarono su una limousine per mostrargli un’enorme gigantografia della copertina del disco che avevano esposto in Times Square; anziché mostrare orgoglio e stupore, ci mancò poco che scappasse via sgattaiolando dal finestrino. In lui c’era un enorme conflitto fra il dover essere un artista e un uomo d’affari allo stesso tempo. Per questo, il più grosso consiglio che ho mai potuto dargli è quello di essere sempre l’unico padrone del suo destino, di non lasciare che nessun altro, eccetto lui, avesse il controllo sulla sua vita”.
Come per tutti gli artisti che hanno realmente lasciato il segno, l’eredità di Jeff Buckley va oltre la produzione discografica e il suo stesso mito: nella storia della musica recente, si può ben individuare un prima e un dopo. La sua opera ha definito un canone universale, portando definitivamente nel mondo del pop un approccio e uno stile, soprattutto canoro, che prima di lui soltanto il padre aveva osato sperimentare, con esiti ad oggi ancora irripetibili. Se però Tim ha anzitutto agito a livello sotterraneo, raccogliendo più estimatori e cultori che veri e propri epigoni, la maggiore esposizione di Jeff e la comunicatività della sua musica hanno fatto sì che il suo stile divenisse uno tra i più emulati in assoluto. Già negli anni in cui era attivo, alcuni musicisti restarono profondamente toccati dalla sua sensibilità, trasferendola nella propria arte: è il caso dei Radiohead (la leggenda vuole che Fake Plastic Trees sia stata ispirata da un concerto londinese del nostro), dell’amico Chris Cornell (il cui debutto solista del 1999 risente moltissimo dello stile di Jeff), di PJ Harvey (da sempre dichiarata estimatrice della sua opera). A partire dal 1998, si sono affacciati sulle scene numerosi artisti indubbiamente debitori della sua lezione: i nomi sono tanti, a partire dal pop inglese romantico di Coldplay, Travis, Muse e Starsailor (che inoltre prendono il nome dal più famoso album di Tim), attraverso songwriter come Ed Harcourt, Maximilian Hecker, Ben Christophers, Rufus Wainwright (designato dall’illustre critico Nick Kent come unico, possibile erede), fino agli acclamati Damien Rice e Antony & The Johnsons, che hanno conquistato le platee di mezzo mondo grazie a qualità canore analoghe a quelle del nostro. Nel 2005, anche l’attuale scena indie ha pagato pegno, con il bel tributo Dream Brother: The Songs Of Tim And Jeff Buckley, i cui protagonisti sono nuovi cantautori di tutto rispetto come Sufjan Stevens e Micah P. Hinson, e proprio in questi mesi stiamo assistendo all’ascesa di Joan As Police Woman, ovvero Joan Wasser, che di Jeff è stata compagna negli ultimi anni di vita. Insomma, anche se riflessa nell’opera di altri artisti, la luce di Buckley continua a brillare; tuttavia, l’intensità e la complessità che ne hanno contraddistinto i passi terreni erano talmente uniche da restare ineguagliabili. “La sua vera eredità va oltre la musica stessa”, afferma Mary. “Una volta mio figlio disse a un giornalista: il mio lavoro è intrattenere, non sono un chirurgo, non salvo la vita della gente. Eppure, molte persone là fuori direbbero che Jeff ha realmente salvato le loro vite, in senso spirituale, s’intende; ha avuto il potere di elevare i suoi ascoltatori verso un livello di coscienza superiore. Nelle sue canzoni voleva capire la vita, l’amore, e a volte riusciva ad avvicinarsi alla verità più degli altri. Credo che sia questo il motivo perché le sue canzoni hanno toccato così tante persone, e perché la sua musica sia tanto influente”.
A un livello più terreno, la vita artistica di Jeff Buckley si è protratta ben oltre la sua scomparsa. Con la severa e immancabile supervisione di mamma Guibert, dal 1998 ad oggi sono stati pubblicati ben sei album postumi: due di inediti in studio (Sketches For “My Sweetheart The Drunk”, contenente il materiale per l’incompiuto seguito di Grace, e Songs To No One, con il chitarrista Gary Lucas – vedi box a pagina 44), due dal vivo (Mystery White Boy, Live à l’Olimpia), due ristampe espanse (Live At Sin-é e Grace Legacy Edition); a questi si aggiungono un dvd (Live In Chicago) e un cofanetto di cd singoli (The Grace Eps). Una media indubbiamente alta per un artista che, in attività, ha pubblicato poco più di una decina di canzoni. Su questo punto la critica e il pubblico rock si sono divisi, e anche tra gli stessi fan di Buckley sono sorte opinioni divergenti sull’opportunità di tali operazioni. Se dal canto nostro ci limitiamo a segnalare Sketches, Mystery White Boy e il Sin-é deluxe come le uscite degne di nota, per il resto lasciamo che sia la stessa Mary a illustrarci il suo punto di vista: “La mia vita avrebbe potuto essere così diversa. Già immaginavo di passare il resto dei miei giorni con addosso una t-shirt con su scritto ‘sono la mamma di Jeff Buckley’, a ricevere i vip nel nostro salotto. E invece… mi sono trovata sola, col mio immenso dolore e un’eredità da gestire. Mi sono però resa conto che, anziché lasciarlo degenerare in devastazione e distruzione, potevo usare il dolore per fare qualcosa di positivo. E così, preservare l’eredità di mio figlio è diventata la ragione per alzarmi al mattino. Non c’è modo di sapere che cosa lui avrebbe voluto, quale sarebbe stato il modo perfetto di fare le cose. Quindi da subito, la cosa più importante per me è stata di impedire che le compagnie discografiche rendessero Jeff un prodotto commerciale. Ho voluto che ogni uscita fosse una gemma, e ho cercato di contenere tutte le offerte che mi venivano fatte. In casi simili, ci sono stati artisti che hanno pubblicato venti o trenta dischi dopo la morte”.
Mentre l’elenco delle uscite postume si allunga ulteriormente con un best of e la messa in commercio del documentario indipendente Amazing Grace, Mary ci rivela che la prossima pubblicazione, prevista per l’autunno, sarà un dvd di apparizioni televisive successive all’uscita di Grace, per poi parlarci del progetto più importante.
Già dalle pagine del sito ufficiale jeffbuckley.com aveva reso noto che, dopo infinite pressioni e proposte, sarebbe stato realizzato un film biografico tratto dal libro di David Browne, Dream Brother: The Lives And Music Of Jeff And Tim Buckley (2001). “Continuavano a sottopormi copioni su copioni, era terribile! Così alla fine ho ceduto e ho cercato io stessa uno sceneggiatore, Brian Jun. La lavorazione è ancora agli inizi: al momento il copione è alla seconda bozza, e penso ci vorrà ancora un po’ di tempo. È un processo lento e laborioso, anche perché stiamo cercando di ricostruire i fatti nella maniera più veritiera possibile”.
Infine Mary ci fa sapere che, presumibilmente nel giro di due o tre anni, saranno messi in vendita sul web numerosi bootleg di concerti, e che ci sarebbe l’intenzione di rielaborare in futuro alcune tracce incompiute, per lo più frutto di jam session in studio. Francamente, ci auguriamo che quest’ultima cosa non accada mai.
Cantava Tim Buckley nel 1967: “A volte mi chiedo, anche solo per un momento / Ti ricorderai di me?”. Quasi trent’anni dopo, rispondendo a un intervistatore, suo figlio aggiunse: “Non ho bisogno di essere ricordato. Spero che venga ricordata la musica. Io voglio essere ricordato solo come un buon amico”.
È stato davvero così? In tutti questi anni, l’affetto per Jeff Buckley come persona e come artista non è mai venuto meno. Sfogliando il booklet dell’antologia So Real, guardando documentari come Amazing Grace o Everybody Here Wants You (BBC, 2002), sorprende il numero di testimonianze raccolte, e l’entusiasmo delle stesse. Come se Jeff avesse lasciato davvero qualcosa di indelebile nelle persone che ha incontrato, o che comunque ha toccato con la sua musica. Su questo, Mary concorda: “Qual è la definizione di ‘un buon amico’? Una persona che ti dice realmente cosa hai bisogno di sapere, che ti accetta per quello che sei. E Jeff, con la sua musica, lo ha fatto”.
Articolo tratto da JAM numero 137 (Maggio 2007): http://www.jamonline.it
lunedì 28 maggio 2007
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