Un anno se n'è andato ed un altro sta arrivando. Potremmo certo fare un migliaio di auspici per il 2009, ma a me ne basterebbe uno solo a ben vedere: che sia migliore del 2008. E non è che, vuoi a livello personale che collettivo, sarà poi difficile sia così! :) Come buon proposito bloggistico ho deciso di scrivere un pochino di più e di provare ad essere costante, almeno a livello di parole musicali. Ecco mi piacerebbe parlare almeno di un disco a settimana (e per gennaio la lista è bel che pronta con Antony & The Johnsons, J. Tillman, Andrew Bird e Animal Collective: 4 dischettini in uscita niente male). Vedremo se riuscirò. Per ora prendetevi i miei migliori auguri per l'anno che verrà!!! :)
mercoledì 31 dicembre 2008
martedì 30 dicembre 2008
Il meglio del 2008
Quest'anno anticipo di un mesetto (sebbene con la data 31.12 così rimarrà sempre in alto!) la consueta compilation musicale che racchiude una ventina di pezzi, fra quelli che più ritengo significativi musicalmente della produzione 2008. Considerando ch più o meno distrattamente 300 albums sono passati nelle mie cuffiette quest'anno, posso dire che questo è davvero il mio the best of 2008: 20 canzoni (esclusi intro, outro, ghost track e interludi vari) mixate ed amalgamate dall'illuminante (lo sarà almeno fin dall'inizio per chi l'ascolterà) titolo, parafrasato e tradotto dall'album dei Sigùr Ròs.
Intro
The Great White Ocean - Antony & The Johnsons
Lost Boys - Shearwater
Skinny Love - Bon Iver
Vid Spilum Endalust - Sigùr Ròs
Interlude
White Winter Hymnal - Fleet Foxes
Apples - My Brightest Diamond
Killing Me - Fred Eaglesmith
Ferment In D Minor - Dark Dark Dark
I Do What I Want When I Want - Xiu Xiu
Do You Want To Come With - Stephen Fretwell
Willow Trees Bend - Bonnie 'Prince' Billy
A New Room For A Quiet Life - Beatrice Antolini
Hollow Halo - Timesbold
Interlude
Never A Stranger Kiss - Gregory Hoskins
To The Love Within - Megapuss & Devendra Banhart
Interlude
In The End - Scott Matthew
Ghosts - Katkhuda
Vespers - Willard Grant Conspiracy
The Howling Song - Matt Elliott
Interlude
Will I Ever Learn - Herbert Groenemeyer & Antony
Outro
(Ghost Track)
(INTRO: Shearwater; INTERLUDES: Shearwater, The Castanets, Man Man, Max Richter; OUTRO: Woven Hand; GHOST TRACK: Diego Mancino, 'Soli Non Si è Mai').
mercoledì 24 dicembre 2008
Ooops.. è appena arrivato Babbo Natale..
.. e anche se ho appena finito con la classifica dei miei album preferiti del 2008. Vi dico già chi sarà al #1 nel 2009..
lunedì 22 dicembre 2008
I Miei Dischi dell'Anno: #1 .. and the winner is ..
Beh, chi avesse dato una periodica scorsa a questo (poco aggiornato) blog non avrebbe avuto dubbio alcuno su quale disco mi abbia letteralmente folgorato quest'anno. Comunque prima dell'annuncio ufficiale elencherei altri 10 albums ascoltati con pari intensità/frequenza di quelli finiti in top 10, ma che per una ragione o per l'altra ne sono rimasti fuori:
Afterhours - I Milanesi Ammazzano il Sabato
Baby Dee - Safe Inside The Day
Baustelle - Amen
Gurrumul Yunupingu - Gurrumul
Moltheni - I Segreti Del Corallo
Portishead - Third
The Last Shadow Puppets - The Age Of Understatement
TV On The Radio - Dear Science
Vampire Weekend - Vampire Weekend
Xiu Xiu - Women As Lovers
ma ora, ricapitolando:
Afterhours - I Milanesi Ammazzano il Sabato
Baby Dee - Safe Inside The Day
Baustelle - Amen
Gurrumul Yunupingu - Gurrumul
Moltheni - I Segreti Del Corallo
Portishead - Third
The Last Shadow Puppets - The Age Of Understatement
TV On The Radio - Dear Science
Vampire Weekend - Vampire Weekend
Xiu Xiu - Women As Lovers
ma ora, ricapitolando:
#10 - Matt Elliott - Howling Songs
#9 - My Brightest Diamond - A Thousand Shark's Teeth
#8 - Katkhuda - A Long Way From Somewhere
#7 - Beatrice Antolini - A Due
#6 - Bonnie 'Prince' Billy - Lie Down In The Light
#5 - Fleet Foxes - Fleet Foxes
#4 - Bon Iver - For Emma Forever Ago
#3 - Sigùr Ròs -Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust
#2 - Scott Matthew - Scott Matthew
.. rullo di tamburi..
#1
Audio CD (June 3, 2008)
Original Release Date: 2008
Number of Discs: 1
Label: Matador Records
ASIN: B0017R5UH8
GENRE: Indie-pop; Alt-folk.
1. On the death of the waters
2. Rooks
3. Leviathan bound
4. Home life
5. Lost boys
6. Century eyes
7. I was a cloud
8. South col
9. The snow leopard
10. The hunter's star
(se ti piace anche.. beh se ti sono piaciuti i restanti 9 della mia top 10, direi) ;)
recensione da SENTIREASCOLTARE:
Una volta debuttata On The Death Of The Waters, sembra esser capitati davanti a una nuova versione di Exit music (for a film): voce sussurrata neniosa, piano di sottofondo, incedere culminante in acuti. Tutto termina con la conclusione del testo, con le parole “that wave rises slowly and brakes”, poi la rottura, l’esplosione che determina anche il distanziamento dai lavori precedenti del sodalizio Shearwater. Un intero minuto strumentale che raggiunge lirismo e ariosità, per riacquietarsi con un mesto assolo di pianoforte e mettere la parola fine al brano. Cosa c’è di nuovo, cosa rimane delle esperienze precedenti. Lo si ritrova sin dalla prima traccia, lo s’identifica già da questo punto. Rook è lavoro meno pacato dei suoi predecessori: vive sulle numerose “vampate” strumentali, sui vagheggiamenti accalorati che fungono da spartiacque tra distinti momenti delle composizioni. Quasi tutte le canzoni godono d’intermezzi svettanti costruiti su archi e ritmiche. La cura degli ambienti sonori rimane inalterata, situazioni fini, eleganti fanno da contraltare a saliscendi emotivi. La voce di Jonathan Meiburg è più poetica che mai (I Was A Cloud), appare, a volte, del tutto inaccostabile al suo (ex) alter ergo degli Okkervil River. Ed è quindi cosa fatta mettere sul piatto (con le debite distanze) i nomi dei Buckley. Ma Rook gode anche di momenti “altri”. Sotto una copertina “ornitologica” e tanto ispirata si nasconde in se un tema, tanto in voga negli ultimi tempi. Natura e uomo, partorito durante un viaggio alle Falkland, lontani da facezie moderne. Il disco vorrebbe parlare “dell’intersezione tra l’uomo e il mondo naturale: l’uomo, il cacciatore e la natura, la preda; l’estinzione delle specie animali e vegetali; come apparirà il mondo una volta che l’uomo si sarà estinto”. Inutile sottolineare come i testi ci riescano alla perfezione. Il passaggio alla Matador, poi, ha reso meno “sommersi” i suoni e gli arrangiamenti, spostando l’attenzione sul ritmo (Lost boys), piuttosto che sulla profondità. Il risultato è qualcosa di ben più immediato e assimilabile (Century eyes) rispetto al passato. Un disco“facile”, per quanto facili possano essere dei lavori degli Shearwater, che sa di Talk Talk, di American Music Club sino a spingersi verso sentori lontani di Joni Mitchell. Il loro migliore album, uno dei migliori di quest’anno.
I Miei Dischi dell'Anno: #2 Scott Matthew - Scott Matthew + BONUS
Uno dei dischi che attendevo di più nel 2008 e che (al contrario, ad esempio, di quelli di Nick Cave, Ray La Montagne e Marianne Faithfull) non ha affatto deluso le attese..
#2
Audio CD (March 25, 2008)
Original Release Date: 2008
Number of Discs: 1
Label: Msi Music/Super D
ASIN: B0011FM81W
GENRE: Alt-folk; Chamber-pop; Songwriter.
1. Amputee
2. Abandoned
3. Prescription
4. Ballad dear
5. Little bird
6. Laziest lie
7. Upside down
8. Habit
9. In the end
10. Surgery
11. Market me to children
(se ti piace anche Antony & The Johnsons, Ramona Cordova, Devendra Banhart)
recensione di ONDAROCK :
Si può creare una fusione tra la sensibilità folk di un Bonnie Prince Billy e l’estasi lirica di Antony presentandosi esteriormente come il cugino serio di Devendra Banhart?
“Si può fare!” urlerebbe Gene Wilder in “Frankenstein Junior”, e infatti ecco qui Mr. Scott Matthew, barbuto australiano che dopo l’interpretazione di canzoni per serie animate di Mtv, un paio di band (tra cui gli Elva Snow insieme all’ex batterista di Morrissey Specer Corbin) e la rivelazione al pubblico tramite la colonna sonora dell’indipendente “Shortbus”, arriva a stupirci con questo primo omonimo album, fatto di emozioni così intense e travagliate che recentemente forse solo il grande Antony è riuscito a esprimere nella canzone d’autore.
L’accostamento all’androgino cantore è ovvio e scontato, ascoltando la musica di Matthew, basta attraversare la meravigliosa “Abandoned”, con il suo sofferto violoncello e la voce di Scott che prima quieta e lenta sale in un vertiginoso falsetto incalzato da un drammatico piano, lasciando spazio solo per la commozione e solitudine del distacco.
La batteria è assente e gli arrangiamenti eleganti e mai troppo inutilmente elaborati sono invece i pochi strumenti che a turno aiutano il cantautore a evidenziare le sensazioni da esprimere, il violoncello nel mood trasognato e triste di “Habit”, il corno francese, morbido letto su cui si sdraia soffusa “In The End”, o il piano, che scoppietta in piccole bolle nell’iniziale “Amputee” e che accompagna solitario l’estatica orazione di “Surgery”.
Se l’aspetto trasandato e bizzarro di Scott - con la sua barba, le sue magliette sciallate e la sua bigiotteria da mercatino - vi spinge ad avvicinarlo a Banhart e altri neo-folkster, sappiate che siete stati tratti in inganno ma non del tutto; in questo esordio si può trovare anche il folk, quello tinto di moderata allegria da banjo e piano jazz in “Prescription”, quello malinconico che segue il sussurro di un accordion in “Laziest Lie” o quello quasi spensierato e campestre di “Upside Down”.
Tutto, però, sempre con una fragilità e una emotività che pervade ogni episodio dell’album, perché, che sia l’orchestrazione stratificata del lento fluire di “Ballad Dear” o quella scheletrica di (quasi) solo ukulele in “Little Bird”, il disco trasuda un romanticismo tra l’onirico e il tragico difficile da reperire nei cantautori dei tempi più recenti.
Storie di abbandoni e solitudini come amputazioni fisiche, cicatrici invisibili di dolore da curare con chirurgia emotiva, come dichiarato dallo stesso autore in “Habit” quello di Matthew è un songwriting che trasforma la dolcezza in tristezza e malinconia; di per sé non una novità d’intenti, ma la realizzazione di questo improbabile romanticone barbuto ha la forza espressiva per arrivare direttamente al cuore, cullandoti nella bellezza triste di una foglia cadente in autunno o lasciandoti senza fiato a rincorrere la voce persa nel rapimento delle emozioni più pure e dolorose.
Se attendete con ansia il prossimo album di Antony & The Johnsons non perdetevi il debutto di Scott Matthew, decisamente uno dei più belli, coinvolgenti e commoventi di questo 2008.
venerdì 19 dicembre 2008
I Miei Dischi dell'Anno: #3 Sigùr Ròs - Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust + BONUS
Apro il podio con un album che il mio contatore degli ascolti iPod segna inequivocabilmente col numero 56 (volte). Non c'è quindi alcun bisogno di motivare altrimenti la posizione numero 3..
#3
Audio CD (June 24, 2008)
Original Release Date: 2008
Number of Discs: 1
Label: XL Recordings
ASIN: B001ACY8D2
GENRE: Dream-pop; Post-folk.
1. Gobbledigook
2. Inní Mér Syngur Vitleysingur
3. Góðan Daginn
4. Við Spilum Endalaust
5. Festival
6. Suð Í Eyrum
7. Ára Bátur
8. Illgresi
9. Fljótavík
10. Straumnes
11. All Alright
(se ti piace anche.. beh i Sigùr Ròs, solo che stavolta molto più folk e pastorali del solito! ;)
rar password: radiobutt.blogspot.com
recensione da ONDAROCK:
Frutto della collaborazione – fortunatamente non troppo invasiva – con il produttore Flood, e registrato in diverse location in giro per il mondo, da Reykjavík fino a Cuba, “Con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito” (questa la traduzione del suo lungo ed emblematico titolo) è in realtà un album sospeso tra il passato e il presente della band, ma è anche una collezione di spunti artistici piuttosto diversi tra loro, sul cui effettivo seguito futuro si possono oggi soltanto costruire ipotesi. Gli elementi di novità sembrano tuttavia più numerosi dei retaggi di “conservazione”, così come testimonia la stessa struttura dell’album, che si può a grandi linee suddividere in tre parti, delle quali due presentano Jónsi Birgisson e compagni in vesti sonore più o meno nuove, mentre una tende a perpetuare le stesse caratteristiche di fascino e coinvolgimento emotivo tipiche delle precedenti opere della band.
La prima parte del lavoro è fortemente spiazzante, e mostra da subito i Sigur Rós sotto una prospettiva quasi del tutto inedita, ammantando le loro melodie soffuse ed eteree di una solarità inconsueta e di una vena pop mai così spiccata...
...Superato il comprensibile disorientamento dei primi brani, la parte centrale dell’album riporta invece al registro più classico della band, con tempi dilatati e con il consueto cantato etereo, dolcemente stillato su un avvolgente tappeto d’archi, il cui inesorabile e in parte prevedibile crescendo anticipa, in “Festival”, l’irrompere della batteria e dei cori e l’unico impetuoso finale elettrico presente nell’album...
...È il preludio al terzo segmento del lavoro, quello più intimo e raccolto, in cui Jónsi assurge a protagonista assoluto, dimostrando con la semplicità di voce, chitarra acustica e pianoforte – inframezzata dal pensoso interludio di ambient orchestrale “Straumnes” – che l’incredibile capacità comunicativa innegabilmente riconosciuta ai Sigur Rós, può fare a meno persino delle travolgenti cavalcate elettriche per conseguire un effetto parimenti “emotivo”...
...La struttura tripartita del lavoro, tanto palese da essere stata certamente congegnata di proposito, rispecchia senz’altro il processo di trasformazione in atto, tra passato, presente acustico e ipotizzabile dimensione pop futura. Altrettanto studiato anche dal punto di vista compositivo, “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust” riesce tuttavia a bilanciare la prevalente levigatezza dei brani con l'istinto e l'abituale forza interpretativa che, anche in quello che potrebbe essere reputato come un classico album di transizione, regala almeno un brano da amare e ricordare per ogni terzo dell'album. Ben venga, allora, questa transizione, se concretizzata in fulgidi esempi di versatilità del calibro di “Við Spilum Endalaust”, “Ára Bátur” e “Fljótavík”, e più in generale nell'ennesima, (superflua!) dimostrazione che la magia irripetibile, creata sin qui dai Sigur Rós, non risiedeva soltanto nella chitarra suonata con l'archetto e nelle pur mirabili impennate emotive.
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I Miei Dischi dell'Anno: #4 Bon Iver - For Emma Forever Ago + BONUS
Caso più unico che raro, un album presente nella mia Top 10 sia nel 2007 che nel 2008. Probabilmente quindi è bello davvero..
#4
Audio CD (February 19, 2008)
Original Release Date: 2007
Number of Discs: 1
Label: Jagjaguwar
ASIN: B0011HF6GE
GENRE: Alt-folk; Songwriter.
1. Flume
2. Lump slum
3. Skinny love
4. The wolves (Act 1 & 2)
5. Blindsided
6. Creature fear
7. Team
8. For Emma
9. Re: stacks
(se ti piace anche Bonnie 'Prince' Billy, Shearwater, Micah P. Hinson)
martedì 16 dicembre 2008
I Miei Dischi dell'Anno: #5 Fleet Foxes - Fleet Foxes + BONUS
Alla posizione no.5 c'è il gioiellino pop dell'anno. Davvero una sorsata d'acqua fresca dopo una giornata passata nel deserto: da scolarsi sempre e comunque in ogni occasione..
#5
Audio CD (June 3, 2008)
Original Release Date: 2008
Number of Discs: 1
Label: Sub Pop.
ASIN: B0017R5UAA
GENRE: Indie-pop; Songwriter.
1. Sun it rises
2. White winter hymnal
3. Ragged wood
4. Tiger mountain peasant song
5. Quiet houses
6. He doesn't know why
7. Hard them stirring
8. Your protector
9. Meadowlarks
10. Blue ridge mountains
11. Oliver James
(se ti piace anche Paul simon, Brian Wilson, Rufus Wainwright)
recensione da SENTIREASCOLTARE:
Coccolatissima già da un paio d’anni da addetti ai lavori e pubblico indie più attento (quello del web, ovviamente), immancabile presenza-rivelazione delle pagine di Pitchfork e di tutti i festival U.S., questa band di Seattle approda infine all’esordio su lunga distanza sotto l’egida della Sub Pop, dopo i più che promettenti segnali lanciati qualche mese fa dall’EP Sun Giant. A prima occhiata, è fin troppo facile inquadrare i Fleet Foxes: cinque ventenni barbuti, infettati dallo stesso morbo hippy-folk che ha fatto strage di buona metà dell’underground a stelle e strisce, da Devendra in giù – o, più appropriatamente, Akron / Family (con cui condividono assetto e, per alcuni versi, attitudine – ascoltare l’iniziale Sun Rises, ad esempio). Non esattamente una novità, insomma. Il bello viene però osservando da vicino, quando ci si accorge che, più che con i sunnominati, Robin Pecknold & amici presentano cromosomi in comune con The Band, CSNY e Beach Boys, di cui riprendono rispettivamente l’alchimia ancestrale, le armonie celestiali e gli scenari immaginifici.
Per di più, a velleità sperimentali ed eclettismi assortiti, prediligono la confezione di canzoni folk-pop cesellate ad arte, attraversate da melodie talmente classiche che, semplicemente, sembra siano state sempre lì. Si provi il crescendo emozionale a cappella di White Winter Hymnal, la spirale ascensionale di He Doesn’t Know Why; o ancora le suggestioni pastorali di Your Protector, le architetture strumentali alla Pet Sounds (o, meglio ancora, Smile) di Quiet Houses o quelle in stile primi Floyd di Blue Ridge Mountains; o infine l’intimismo lirico alla My Morning Jacket di Meadowlark e il new traditional - come altro definirlo? - di Oliver James. Ma c’è altro. Oltre influenze, assonanze e similitudini, c’è qualcosa di magico e di antico, di onirico e subliminale che percorre queste undici tracce; qualcosa che trascende anacronismi e nostalgie, e ha la capacità di connettere con stati d’animo reconditi. Quando un disco colpisce dritto nel segno in questo modo, vuol dire semplicemente che si è al cospetto di una nuova, grande band.
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lunedì 15 dicembre 2008
I Miei Dischi dell'Anno: #6 Bonnie 'Prince' Billy - Lie Down In The Light
Appena l'ho ascoltato ho subito pensato si trattasse di un mezzo passo falso, rispetto alla qualità della sua smisurata discografia, ma poi pian piano è cresciuto, cresciuto, cresciuto..
#6
Audio CD (May 20, 2008)
Original Release Date: 2008
Number of Discs: 1
Label: Drag City
ASIN: B0018OCJ4C
GENRE: Country-folk; Songwriter.
1. Easy do it
2. The glory goes
3. So everyone
4. For every field there's a mole
5. Other's gain
6. You want that picture
7. Missing one
8. What's missing is
9. Where's the puzzle?
10. Lie down in the light
11. Willow trees bend
12. I'll be glad
(se ti piace anche Neil Young, Hank Williams, Leonard Cohen)
recensione da ONDAROCK:
Non c’è molto da aggiungere quando si parla della carriera irreprensibile di Will Oldham, aka Bonnie Prince Billy aka Palace Brothers, Palace Songs, Palace Music; una discografia che supera ormai agilmente i trenta titoli tra Ep e album nei quali con ogni suo alias il songwriter americano ha sempre offerto una pregevole rilettura appassionata, rispettosa e convincente di country e folk.
Solitamente dopo una carriera di questo tipo e con un ritmo di lavoro così alto difficilmente si danno alle stampe capolavori che possano competere con i propri migliori dischi ma questo “Lie Down In The Light” si distingue dagli altri per la capacità di Oldham nel prendere le basi di questi generi e usarle come creta, plasmandole e trasformandole in creazioni originali, iniettando a questi stili nuova linfa senza però snaturarne l’essenza.
Canzoni come “For Every Field There’s A Mole”, con clarinetto jazz, "Where’s The Puzzle”, country-rock che si dilania tra sonagli ed elettrificazioni, o i duetti di “So Everyone” e “You Want That Picture”, con un vago sapore che rimanda al folk californiano anni 60, sono dimostrazioni perfette del genio del principe Billy in questo senso.
Il pericolo di una eccessiva omogeneità che sovente si presenta in dischi di questo genere è pressoché inesistente; si svaria piacevolmente e agilmente tra country campagnoli in falsetto (“Easy Do It”), western di frontiera (“You Remind Me Of Something”) o delicatezze fatte di splendida semplicità (“Missing One”, la title track).
Ognuna con il proprio carattere, ognuna impeccabile, dai duetti con la voce femminile di Ashley Webber (meraviglioso quello finale di “I’ll Be Glad” tra organo e lap steel) alle scarne ed intime essenzialità da Songs:Ohia (“Willow Trees Bend”).
Un disco che può non avere forse la coesione formale di altre uscite discografiche di Bonnie "Prince" Billy, ma che ne esprime al meglio le straordinarie doti di compositore e interprete, unico nel difficile compito di ravvivare country e folk mantenendone intatto lo spirito.
Per chi sostiene che certi generi non hanno più niente da dire se non con alterazioni più o meno stravaganti, è sempre pronta la risposta del barbuto ragazzo del Kentucky, col cuore rivolto a Hank Williams e Gram Parsons ma il cervello vivace e frizzante del nuovo millennio.
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Solitamente dopo una carriera di questo tipo e con un ritmo di lavoro così alto difficilmente si danno alle stampe capolavori che possano competere con i propri migliori dischi ma questo “Lie Down In The Light” si distingue dagli altri per la capacità di Oldham nel prendere le basi di questi generi e usarle come creta, plasmandole e trasformandole in creazioni originali, iniettando a questi stili nuova linfa senza però snaturarne l’essenza.
Canzoni come “For Every Field There’s A Mole”, con clarinetto jazz, "Where’s The Puzzle”, country-rock che si dilania tra sonagli ed elettrificazioni, o i duetti di “So Everyone” e “You Want That Picture”, con un vago sapore che rimanda al folk californiano anni 60, sono dimostrazioni perfette del genio del principe Billy in questo senso.
Il pericolo di una eccessiva omogeneità che sovente si presenta in dischi di questo genere è pressoché inesistente; si svaria piacevolmente e agilmente tra country campagnoli in falsetto (“Easy Do It”), western di frontiera (“You Remind Me Of Something”) o delicatezze fatte di splendida semplicità (“Missing One”, la title track).
Ognuna con il proprio carattere, ognuna impeccabile, dai duetti con la voce femminile di Ashley Webber (meraviglioso quello finale di “I’ll Be Glad” tra organo e lap steel) alle scarne ed intime essenzialità da Songs:Ohia (“Willow Trees Bend”).
Un disco che può non avere forse la coesione formale di altre uscite discografiche di Bonnie "Prince" Billy, ma che ne esprime al meglio le straordinarie doti di compositore e interprete, unico nel difficile compito di ravvivare country e folk mantenendone intatto lo spirito.
Per chi sostiene che certi generi non hanno più niente da dire se non con alterazioni più o meno stravaganti, è sempre pronta la risposta del barbuto ragazzo del Kentucky, col cuore rivolto a Hank Williams e Gram Parsons ma il cervello vivace e frizzante del nuovo millennio.
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I Miei Dischi dell'Anno: #7 Beatrice Antolini - A Due
Se i Katkhuda sono stati la colonna sonora dell'estate, questo disco m'ha tenuto compagnia per gran parte dell'autunno. Direttamente da Macerata, anche se non si direbbe, e tutto da sola, anche se il titolo è: "A due"..
#7
Audio CD (October 17, 2008)
Original Release Date: 2008
Number of Discs: 1
Label: Urtovox Record
ASIN: B001KKWV5G
GENRE: Avant-pop; Songwriter.
1. New manner
2. Funky show
3. Morbidalga
4. A new room for a quiet life
5. Modern lover
6. Clear my eyes
7. Pop goes to St. Peter
8. Sugarise
9. Secrete cassette
10. Double J
11. Taiga
(se ti piace anche The Dresden Dolls, Amanda Palmer, Lydia Lunch)
recensione da ONDAROCK:
...Anche in “A due” prevalgono i numeri eccentrici (ma maggiormente meditati, studiati, estesi) di vaudeville sensuoso, di music-hall Broadway-iano, di cadenze esotiche e melodie psichedeliche, come in “Pop Goes To Saint Peter”, un treno di ritmati esotismi (tango, twist, orchestrina rumba), un capolavoro di vocine suadenti, entusiastiche o spiritate, e un umore aggressivo-frenetico che ricorda persino i Dead Kennedys. Anche meglio è “A New Room For A Quiet Life”, bossanova luciferina percussiva per piano martellante, un Nine Inch Nails al femminile dedito alla tropicalia. Invece “Modern Lover”, sonata stralunata ricolma di luminescenze di tastiera (non meno allucinogene), acquieta la tempesta ormonale.
...Lungi dalla profondità o dall’erudizione, questa maestrina della contaminazione gioca a fare l’intrattenitrice vellutata, ma importandovi la deontologia della punkette in fase di transizione, o di rocker-coraggio. La maturità delle canzoni, scarsa o poco ostentata, è sfruttata fino al camuffamento sistematico dei connotati (con i metodi più disparati, a tratti quasi disperati), e finisce per essere operazione ai limiti. Pur senza un vero e proprio self-control, non le manca di certo il feeling della vibrazione energetica, l’idea originale che fa sobbalzare il brano, la cura sottesa all’inventiva variabile (ambiziosa e no).
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...Lungi dalla profondità o dall’erudizione, questa maestrina della contaminazione gioca a fare l’intrattenitrice vellutata, ma importandovi la deontologia della punkette in fase di transizione, o di rocker-coraggio. La maturità delle canzoni, scarsa o poco ostentata, è sfruttata fino al camuffamento sistematico dei connotati (con i metodi più disparati, a tratti quasi disperati), e finisce per essere operazione ai limiti. Pur senza un vero e proprio self-control, non le manca di certo il feeling della vibrazione energetica, l’idea originale che fa sobbalzare il brano, la cura sottesa all’inventiva variabile (ambiziosa e no).
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giovedì 11 dicembre 2008
I Miei Dischi dell'Anno: #8 Katkhuda - A Long Way From Somewhere
Posizione numero otto: E' la volta di un piccolo gioiellino di disco, scoperto grazie al grande addison (peccato solo sia nerazzurro!), che mi ha fatto compagnia direi per tutta l'estate, ma che si lascia ben ascoltare anche in clima uggioso/refrigerante.
#8 KATKHUDA - A Long Way From Somewhere
- Original Release Date: 16 Jun 2008
- Label: Katkhuda
- ASIN: B00180OTAS
- GENRE: Alt-folk; Etnic-pop.
- 1. Beneath the arcade2. Strange little things3. Between the croocked sea4. The ballad of two minds5. Welcome mariner6. You fell into the stars7. Mr Wilson's opus no. 458. Confession rains9. Spring hill10. Ghosts(se ti piace anche Damien Rice, Lambchop, Ray LaMontagne)recensione da ONDAROCK:Il suono di un orologio-carillon introduce nella magica atmosfera di “Beneath The Arcade”, brano d’apertura dell’esordio dei Katkhuda, il progetto di Damian Katkhuda e Damian Montagu. Ed è una piacevole sorpresa riassaporare il folk armonico e delicato già proposto con classe in “The Magic Land Of Radio”, primo album degli Obi, fondati dal chitarrista nel 2001. Languido e pieno di magia, “Beneath The Arcade” crea un incantesimo che trascina l’ascoltatore istantaneamente nel cuore di questo grazioso progetto sonoro, la tromba di Paul Jaya Sinea aggiunge un tocco esotico alle pregevoli armonie che chitarra, viola epedal steel plasmano con classe e grazia. Il folk inglese di Allan Taylor, Ralph McTell, Al Stewart rivive nelle pieghe di un album ricco di episodi pregnanti e originali; la scrittura predilige la contaminazione tra pop, rock e folk realizzando una serie di pregevoli e deliziose ballad da moderno troubadour: basti ascoltare episodi come “Spring Hill”, una incisiva e calda ballata che sembra uscire dalle migliori pagine dei Go-Betweens, o “You Fell Into The Stars”, che tra pedal steel e armoniche appena accennate offre spazi infiniti a piccoli inserti strumentali di estrema raffinatezza, tocchi quasi da piccola sinfonia che caratterizzano anche la successiva “Mr Wilson’s Opus No. 45”, dove è più rilevante la scrittura di Damian Montagu, già compositore di musiche da film. Il disco si snoda gradevole, senza cadute di tono, con viola, cello, tromba, pedal steel e chitarra a impreziosire composizioni dai toni sognanti e poetici, come ”Beneath The Crooked Sea” e "Ghosts", e a volte coinvolgenti e accattivanti come "Strange Little Things" e la già citata "Spring Hill". “The Ballad Of Two Minds”, ricca di effluvi mariachi, tra hand-clap, bizzarri arrangiamenti di fiati e violini, sfoggia un testo amaro e cinico (“Sorry don’t mean shit”...), offrendo ulteriori spunti d’interesse...
I Miei Dischi dell'Anno: #9 My Brightest Diamond - A Thousand Shark's Teeth
Posizione numero 9 per Shara Warden, una che seguo fin dai suoi esordi e che è giunta al suo secondo album ufficiale (il terzo considerando un disco di remix). Talento strabordante e spiccata originalità musicale per un lavoro decisamente raffinato e complesso che non ha affatto deluso le attese.
#9
MY BRIGHTEST DIAMOND - A Thousand Shark's Teeth
Original Release Date: 2008
Number of Discs: 1
Label: Asthmatic Kitty
GENRE: Indie-folk; Chamber-pop
Inside A Boy
The Ice & The Storm
If I Were Queen
Apples
From The Top Of The World
Black & Costaud
To Pluto's Moon
Bass Player
Goodbye Forever
Like A Sieve
The Brightest Diamond
(se ti piace anche Kate Bush, Joan As Policewoman, Portishead)
recensione IL POPOLO DEL BLUES.COM
Secondo album per la New Yorkese trentaquattrenne Shara Worden sotto lo pseudonimo di My Brightest Diamond. Figlia di artisti girovaghi, dopo una prima fase con la sua band Awry, Shara è entrata a far parte della band di Sufjan Stevens, con cui ha condiviso i palchi del mondo per un paio d'anni, per tornare nel 2006 a dedicarsi alla sua musica con "Bring Me The Workhorse", primo album a firma My Brightest Diamond. Con la sua voce elegante, perfettamente intonata, da musicista di formazione classica (diplomata in canto lirico alla University of North Texas), che si destreggia tra le evoluzioni di sinuose linee melodiche, Shara conferma con A thousand Shark's Teeth il suo grande talento. Fin dall'esordio paragonata alla musica di Portishead, Pj Harvey, a volte Bjork, Shara sa giocare in questo album con la voce (come in If I were a Queen) ma anche con elaborati arrangiamenti che coinvolgono un'ampia gamma di musicisti (Black And Costaud). Vuoi per lo stile vocale, vuoi per la scrittura eterea e sospesa, Shara si muove su una sottile linea di confine tra indie folk, pop, e trip-hop (come sulla ottima To Pluto's Moon). Partendo da questa caratteristica, si esplorano parentesi più cantautorali e momenti più corposi come in From The Top Of The World. Più indicato per chi ama la musica di atmosfera rispetto a per chi si attende ritornelli, melodie accattivanti o colpi di scena (che in questo caso, probabilmente, terminerà l'ascolto un po’ annoiato), A Thousand Shark's Teeth è comunque un album molto ambizioso, con velleità sinfoniche in buona parte soddisfatte, elaborato (a volte addirittura con la tendenza a complicarsi troppo) e ben prodotto.
mercoledì 10 dicembre 2008
I Miei Dischi dell'Anno: #10 Matt Elliott - The Howling Songs
Comincio il countdown dei miei dieci dischi preferiti del 2008 con l'ultimo capitolo della trilogia Elliottiana, album di straordinaria intensità emotiva, davvero last but not least..
#10
Audio CD (November 18, 2008)
Original Release Date: 2008
Number of Discs: 1
Label: Ici D'ailleurs/Darla
ASIN: B001GBZE1W
GENRE: Post-folk; Songwriter.
1. The Kübler-Ross Model
2. Something About Ghosts
3. How Much In Blood?
4. A Broken Flamenco
5. Berlin & Bisenthal
6. I Name This Ship The Tragedy, Bless Her & All Who Sail With Her
7. The Howling Song
8. Song For A Failed Relationship
9. Bomb The Stock Exchange
(se ti piace anche Scott Walker, Silver Mt. Zion, Vic Chesnutt)
recensione da ONDAROCK:
Con il terzo capitolo della sua trilogia di songs, Matt Elliott chiude il cerchio di una parentesi artistica ormai abbastanza duratura, che lo ha visto rideclinare le manipolazioni sonore dei tempi di Third Eye Foundation attraverso ricercate e sofferte mutazioni folk...
...Anche in questo caso, il profilo musicale dell’opera rispecchia le sue componenti ideologico-narrative, innestando sulla ricerca di un obliquo folk dalle radici euro-mediterranee – tratto comune di entrambi gli album precedenti – urticanti incursioni elettriche, che sembrano voler esternare un senso di irrimediabile disillusione e sconfitta, traducendo secondo l’attuale sensibilità dell’artista le destrutturazioni degli esordi.
“Howling Songs” si colloca, infatti, su una linea di continuità rispetto ai due capitoli precedenti, riproponendo Matt Elliott nella veste di cantore di cupe ballate che, attraverso una coralità sghemba e profondamente radicata nella cultura popolare europea, sembrano voler esorcizzare un sentimento di ineluttabile sconfitta...
...Benché in questi brani si percepisca nuovamente una certa comunanza con l’approccio corale e drammatico degli ultimi Silver Mt. Zion, riscontrabile già in “Failing Songs”, la classe di Elliott rifugge ancora qualsiasi accostamento, poiché è ben evidente come la ritrovata ruvidezza rappresenti qui non una mera opzione stilistica quanto invece uno sfogo, privo di edulcorazione alcuna, al cospetto del “falling/fallen world”, uno grido di strenua resistenza al mostro che sulla copertina – di bellezza, al solito, sinistra – attenta alla mente e mina l’anima.
Accanto all’urlo rabbioso, vi è però ancora spazio per un paio di frammenti densi di cinematico romanticismo (“How Much In Blood?”, “Song For A Failed Relationship”) e soprattutto per uggiose chansons acustiche, dalle quali traspare chiaramente l’intimo senso di disfatta e la stessa urgenza espressiva sottesa alla musica di Elliott...
mercoledì 3 dicembre 2008
Ancora Live..
Uno dei cantautori di cui vi ho già parlato nel blog (è presente anche nella mia compilation antologia del 2008), questa volta in una performance live tenutasi lo scorso primo maggio in quel del Paradiso, Amsterdam. Il concerto l'ho grabbato da Fabchannel.com, così chi fosse interessato può anche vederselo per intero ed è, manco a dirlo bellissimo. Dal vivo Scott Matthew è la fusione perfetta fra Devendra Banhart e Antony Hegarty, la sua voce la desciverei come una sorta di panna montata al fumè. Concerto consigliato per scaldarsi l'anima da questo pungente freddo dicembrino!
Gnossienne #1 (Erik Satie)
Little bird
Amputee
Ballad dear
Abandoned
Laziest lie
Habit
Surgery
In the end
Language
Upside down
Market me to children
For Dick
Prescription
Everything happens to me
Harvest moon (Neil Young)
Heaven knows I'm miserable now
Untitled
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